Dimostra che sei un essere umano


Un po’ in sordina, e certo senza l’attenzione e l’enfasi che nel 2008-12 accompagnò lo switch-off dalla televisione analogica a quella digitale, anche in Italia – come in tutta Europa – i Broadcaster stanno operando il passaggio a una nuova tecnologia del digitale terrestre.

Il tono quasi imbarazzato con cui avviene questo passaggio si spiega facilmente: questa volta, a differenza di dieci anni fa, non c’è la promessa di più programmi, di un’offerta più ricca, di uno sviluppo del mercato; la ragione del nuovo switch-off sta nella necessità di assegnare una porzione importante delle frequenze finora utilizzate dalla televisione, la banda 700 MHz, alle reti del 5G.

Da qui, l’esigenza di adottare tecnologie di trasmissione e di compressione del segnale più avanzate per utilizzare in modo più efficiente lo spettro elettromagnetico; e dunque l’ennesima nuova pianificazione delle frequenze televisive, nonché per l’utente il disagio di cambiare i televisori più vecchi, pena la perdita della ricezione.

Si aggiungano le incertezze dovute ai ripetuti cambiamenti della road map, decisi dai vari governi sulla spinta di interessi diversificati, e spesso contrastanti, tra i soggetti interessati. Le emittenti locali non a caso temono di non trovare tutte spazio nel nuovo assetto.

Se vi fosse ancora bisogno di una prova tangibile di come, nel giro di appena dieci anni, siano cambiati i rapporti di forza e le dinamiche nell’industria della comunicazione, questo nuovo switch off ne è l’evidenza. Soprattutto, dimostra quanto il sistema tradizionale dei media sia scivolato ai margini dell’attenzione della politica, ormai neppur più capace di accapigliarsi davvero sui temi dell’informazione, salvo alcuni imbarazzanti siparietti, e dell’opinione pubblica, preoccupata giustamente per il trattamento dei dati personali da parte delle piattaforme e per la tutela della privacy, ma distratta dalle conseguenze di lungo periodo in materia di sviluppo industriale e dinamiche culturali.

Eppure, la riorganizzazione dei media e delle industrie creative, su scala globale, operata da un numero ristretto di grandi player tecnologici pone una straordinaria sfida per le industrie nazionali della comunicazione: sono in gioco una quota importante del PIL e dell’occupazione; il controllo di tecnologie e sistemi cruciali per lo sviluppo; la produzione dell’informazione e l’identità culturale, dunque, la qualità della vita sociale e della stessa democrazia.

In poco più di dieci anni, Netflix, Amazon e Apple TV hanno espugnato un bastione che appariva inattaccabile, quello delle media companies americane costruite nell’intreccio tra tv via cavo, broadcasting e studios hollywoodiani, costringendo le stesse pay-tv a convertirsi al nuovo modello di business.

Clamoroso è il caso di Disney, che ha rapidamente spostato il proprio baricentro su Disney+. Cambia anche la natura della globalizzazione: alla fase nella quale le media companies si internazionalizzavano esportando prodotti audiovisivi e capitali sta subentrando una nuova fase nella quale si esportano servizi all’utente finale.

Le implicazioni di questa svolta sono profonde. Netflix non ha come obiettivo vendere prodotti americani nel mondo, bensì quello di acquisire abbonati; e per questo punta a un mix tra prodotti americani e film o serie realizzate coinvolgendo le industrie audiovisive locali. Il rischio è che le basi produttive dell’audiovisivo dei diversi paesi si riducano a mere fabbriche della creatività, la cui strategia d’investimento e le stesse scelte editoriali/culturali sono decise dalla piattaforma che persegue un proprio fine di posizionamento mondiale.

L’ibridazione culturale, propria di ogni internazionalizzazione, diventa un processo passivo, governata da soggetti (le piattaforme-mondo) per i quali le produzioni locali sono materia prima per un mix culturale piegato dalle esigenze di economia di scala e di mondializzazione produttiva delle piattaforme stesse. Non a caso Netflix e le altre piattaforme tendono a tenere per sé in modo esclusivo il diritto di sfruttamento di ciò che finanziano, privilegiando la modalità di finanziamento cosiddetta cost plus rispetto alle coproduzioni o all’acquisto.

Una seconda criticità coinvolge il broadcasting. La televisione sta perdendo, a favore delle piattaforme, pubblico e risorse. Nel 2020, la sola Google ha raccolto 147 miliardi di dollari di pubblicità, più di quanto – a causa della particolare contingenza provocata dalla pandemia – abbia quell’anno raccolto la televisione in tutto il mondo (e nel 2021 è balzata all’incredibile livello di 209,5 miliardi!). Google, Amazon e Facebook dominano ormai i mercati pubblicitari globali.

Certo, la pubblicità televisiva non crollerà negli anni ’20 come negli anni ’10 è precipitata la carta stampata, né gli ascolti declineranno con la velocità con la quale i lettori hanno abbandonato quotidiani e periodici. Le piattaforme stanno però sostituendo, per i nativi digitali, il flusso televisivo con un mix nuovo di consumi mediali di piattaforma (short video, videogiochi, social, musica): nuovo perché esperienziale, fondato sulla (apparente) valorizzazione della soggettività, rivolto non più ai formati della narrazione novecentesca (film e serialità), ma all’accumulo di esperienze visive, fluidi spezzoni di racconto, scambio social. Alla televisione forse resteranno i momenti di intensa condivisione emotiva, dalle grandi imprese sportive alle occasioni di partecipazione civile: un ruolo importante, ma non più centrale.

Questo scenario competitivo sollecita con urgenza un’evoluzione delle competenze manageriali, tecniche e creative, chiede l’elaborazione di strategie d’impresa che consentano di riorganizzare le industrie creative e mediali italiane per far fronte a queste sfide; e – soprattutto – impone di avere una visione d’insieme dello sviluppo mediale del sistema-Italia, innovando gli strumenti e le politiche.

Mettere al centro l’innovazione del prodotto è il primo passo. Non si possono travasare i contenuti della tv generalista nelle modalità di fruizione delle piattaforme, bisogna realizzare contenuti di tipo nuovo.

La creatività, però, ha bisogno di politiche che guardino lontano, investimenti pazienti, strutture che coltivino, sviluppino e infine valorizzino le risorse professionali: il successo planetario della Korean Wave (nel cinema, nella serialità, nei videogiochi, nella musica) è il frutto di progettazione a lungo termine, collaborazione tra capitali privati e strutture pubbliche, costruzione progressiva di una base produttiva, accumulo di competenze.

In secondo luogo, occorre definire il perimetro delle industrie creative. Tradizionalmente, il supporto in Europa e anche in Italia si è indirizzato all’audiovisivo, al cinema in primo luogo. Ma la produzione mediale occupa ormai un perimetro molto più vasto, dai videogiochi ai video brevi per YouTube o Twitch, alla produzione di canali per i performer online; e impone di progettare in modo integrato tutti gli aspetti della creatività.

Infine, occorre governare la trasformazione tecnologica. L’intelligenza artificiale è ormai essenziale nella produzione di contenuti: per l’analisi dei consumi, la progettazione dell’offerta, la proposizione della user experienceIntelligenza artificiale, realtà estesa, 5G sono il mix che trasforma i videogiochi in piattaforme, luoghi di esperienze e scambi, proiettati verso la fruizione dei sistemi cyber-fisici che sarà la frontiera di questo decennio.

Abbiamo gli strumenti per raggiungere questi obiettivi? Forse anche su questo terreno occorre innovare, magari prendendo come esempio quella che è stata una degli artifici del successo coreano: la Korean Culture and Content Agency, che copre tutto il terreno delle industrie creative, dall’audiovisivo alla musica ai videogiochi, sostenendone con una visione integrata lo sviluppo delle tecnologie, il rafforzamento della base produttiva, l’accumulo di competenze e l’internazionalizzazione. Dunque, un possibile esempio cui ispirarsi per fare davvero sistema-Italia.

Luca Balestrieri, Docente di Economia e gestione dei media all’Università Luiss, già Direttore nell’area tecnologica e dell’innovazione RAI