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Le ragioni economiche per non penalizzare il ceto medio

Le ragioni economiche per non penalizzare il ceto medio

Il ruolo del ceto medio nella società italiana e non solo, è tornato prepotentemente alla ribalta, dopo anni di disattenzione al tema da parte dei decisori politici e delle politiche fiscali e del lavoro adottate dai diversi Governi.

A rendere l’argomento nuovamente agibile nel dibattito politico-economico ha contribuito la riflessione sugli esiti dell’ultimo  trentennio durante il quale un paradigma economico, riassunto nel termine “globalizzazione”,  ha prodotto una significativa ridistribuzione della ricchezza sul piano planetario aumentando il PIL di Stati in precedenza più poveri  creando altresì in molti Stati dell’occidente una polarizzazione della distribuzione del reddito e il conseguente ridimensionamento del ceto medio.

Questo fenomeno è stato il corollario di un aspetto della globalizzazione: la deindustrializzazione di molte aree dovuta alla ricollocazione all’estero – in Paesi che offrivano condizioni maggiormente vantaggiose in materia di diritto del lavoro e dell’ambiente – di attività manifatturiere in precedenza collocate sul territorio nazionale.

L’attività manifatturiera è determinante nella creazione e nel mantenimento di una classe media come dimostra il caso della Cina che acquisendo attività manifatturiere soprattutto dall’America ha incrementato la propria classe media con risultati positivi sul piano del consumo interno.

In Italia la classe media che ha resistito a questi processi di ristrutturazione industriale è stata colpita da politiche fiscali e pensionistiche che ne hanno ridotto considerevolmente il potere d’acquisto e la ricchezza reale.

A creare le condizioni di questa situazione ha certamente contribuito la disattenzione della politica nei confronti del ceto medio,  da una parte maggiormente attenta ai diritti civili, alla tutela e inclusione delle minoranze e da un’altra parte più attenta ai temi securitari, alle aspettative dei ceti imprenditoriali e al consenso delle masse popolari che garantiscono maggiori ritorni in termini elettorali.

Va riconosciuto a CIDA e FEDERMANAGER di aver reintrodotto nel dibattito pubblico in Italia l’argomento, in particolare a favore di quella parte della classe media riconducibile alla dirigenza, ritenuta dalla politica  abbastanza ricca da essere esclusa da ogni iniziativa di carattere fiscale che miri a ridurre il prelievo sul reddito e anzi vessata da iniziative come quelle sulle pensioni mirate a ridurne la rivalutazione e quindi il potere di acquisto già minato dalla inflazione.

Tutto questo nei riguardi di una categoria che – pur sostenendo in buona parte il carico fiscale dello Stato – utilizza solo in parte il welfare pubblico grazie al ricorso alle assicurazioni sanitarie e previdenza integrativa, acquisendo così un credito in solidarietà sociale ma anche ponendo un interrogativo sulla equità del trattamento riservato alla categoria.

Ma in aggiunta al giudizio equitativo l’attenzione al tema del ceto medio può e deve motivarsi con ragioni di tipo economico che riguardino l’interesse collettivo e possano giustificare le iniziative a favore della categoria in ragione dei benefici che ne deriverebbero per l’intera società italiana e non solo per  senso di giustizia fiscale.

Volumi e natura dei consumi variano in relazioni alle classi di reddito; i redditi più bassi concentrano i loro consumi su prodotti di necessità che non crescono in relazione alla crescita dei redditi.

All’altro estremo i redditi più elevati, all’aumento ulteriore del loro reddito, oltre una certa soglia non aumentano in maniera proporzionale i loro consumi; è stato questo il fallimento delle politiche in America e Inghilterra (ai tempi rispettivamente di R. Reagan e M. Thatcher) cd, del “gocciolamento” che ipotizzavano che ridurre le tasse ai ricchi avrebbe prodotto effettivi positivi per il resto della società.

Il caso cinese, ma non solo, insegna che solo la classe media è in grado di cambiare in maniera significativa la spesa interna dei Paesi, non solo in termini di volumi (con una relazione direttamente proporzionale fra aumento del reddito disponibile e consumi) ma anche in termini di qualità e natura della spesa.

Esiste una tipologia di consumi ai quali le famiglie accedono non appena dispongano delle risorse economiche necessarie e che sono caratteristici del ceto medio: istruzione, sanità, cultura, intrattenimento, immobili, arredi ed altro; sono consumi che possiamo definire “di status” e qualificano una appartenenza ad un cluster sociale definito maggiormente dalle aspettative e dalle aspirazioni e meno dal reddito.

In proposito è significativo che il rapporto CENSIS commissionato da CIDA sul ceto medio, sottolinei come buona parte delle persone che si dichiarano appartenenti al ceto medio lamentino una incongruenza fra questa appartenenza e il reddito percepito, ritenuto inferiore alle aspettative e al merito.

In definitiva, la fascia reddituale che classifichiamo come media sostiene il consumo interno del Paese per volumi e qualità della spesa con i relativi risultati positivi in termini di PIL e non solo; vi sono pertanto valide motivazioni di interesse generale e non solo di equità sociale per non penalizzare il ceto medio e anzi invertire le tendenze in atto nelle politiche fiscali e pensionistiche.

 

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