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Intelligenza Artificiale: i dirigenti di fronte alle nuove trasformazioni

L’intelligenza artificiale pone (di nuovo) il problema della qualità dei gruppi dirigenti del Paese (manager, politici, intellettuali) nelle imprese come nella pubblica amministrazione, nelle università come nei luoghi di decisione istituzionale.

Abbiamo impiegato almeno un paio di decenni per prendere le misure della digitalizzazione, capirne abbastanza per valutarne le implicazioni, adeguare la nostra visione dell’impresa, della società, dello Stato e della cultura: trasformazione tutt’altro che conclusa e, soprattutto, dagli esiti discontinui e diseguali. E adesso si deve ricominciare da capo.

Sbaglierebbe infatti chi ritenesse i cambiamenti connessi all’intelligenza artificiale come un semplice sbocco evolutivo o, al massimo, un cambio di passo o un’accelerazione rispetto a quanto abbiamo già visto con la digitalizzazione. Dobbiamo piuttosto aspettarci un’ondata molto lunga, pluridecennale anche questa, di trasformazioni: serie di discontinuità, non sempre immediatamente leggibili, intervallate a fasi di sviluppi incrementali, alla fine delle quali scopriremo di trovarci in un’epoca diversa. Esattamente come è successo con il digitale.

Il problema della qualità dei gruppi dirigenti (che diventa, in positivo, quello della loro formazione, selezione e coesione) si ripresenta dunque in tutta la sua severità. Alcuni temi, a questo proposito, già si impongono.

  1. Il primo scoglio è la capacità di governare l’aumento di potenza innovativa del complesso scientifico-industriale, caratterizzato da scosse continue dei mercati per l’accelerazione nella ricerca e nella produzione di brevetti. Settori come le biotecnologie, il farmaceutico o i nuovi materiali sono esempi di come l’AI stia già cambiando le regole del gioco, modificando i tempi e i costi della ricerca e dello sviluppo applicativo. È troppo presto per prefigurare fino in fondo quali cambiamenti questo comporterà per l’assetto dei sistemi tecnoindustriali, quali equilibri dovranno essere stimolati e governati tra ricerca e industria, tra impresa e pubblica amministrazione, tra innovazione e finanza. Certamente lo sguardo dei gruppi dirigenti, manageriali e politici, dovrà diventare più lungo degli orizzonti delle trimestrali o delle scadenze elettorali, imparando a connettere in modo nuovo le componenti del sistema-Paese. È dalla crisi del 2011 che l’Italia perde quota rispetto ai suoi competitori: focalizzarsi sull’AI può essere un modo per riconnettere le fila dello sviluppo e per dare una scossa alla cultura delle sue élites allargate e dei suoi decisori.
  2. Ci si dovrà confrontare con l’impatto dell’AI sul modello d’impresa. Abbiamo visto la digitalizzazione dell’industria, dei servizi e delle reti territoriali far nascere anche un nuovo tipo d’impresa, organizzata come piattaforma, dove la supply chain diventa un network e dove, per l’osmosi tra interno ed esterno, il principio di comando gerarchico tipico dell’organizzazione sfuma e si integra con l’ottimizzazione propria dei rapporti di mercato. Trasformazione che ha richiesto focalizzazione sui processi, tanto che ormai nelle imprese più orientate all’innovazione il digital transformation officer ha sempre più spesso il rango di chief. L’AI sta cominciando a imporre una nuova ulteriore reingegnerizzazione dei processi, richiedendo di progettare una trasformazione intelligente (ossia disegnata dall’AI) radicale quanto quella digitale. E come avvenuto per il digitale, occorrerà in ogni impresa una prolungata e scabrosa fase di autocoscienza sull’adeguatezza della propria cultura aziendale e sulla cultura dei propri manager; e soprattutto sarà necessario allargare questa autoanalisi all’insieme del corpo manageriale del Paese, nelle imprese come nelle grandi reti della società civile e della pubblica amministrazione: quali competenze mancano? Quali vanno riformulate? Quali strutture permanenti di formazione e di aggiustamento sono necessarie? Chi deve governare tutto questo?
  1. Nello sfondo, si erge il tema di un nuovo patto tra Stato e mercato: delineato dalle nuove politiche industriali americane, che in nome della competizione geopolitica riscoprono sinergie fortissime tra potere politico e imprese, ma anche prefigurato dalle novità di politica industriale europea, più lente e incerte (come al solito!) ma altrettanto fondate sul nesso tra geopolitica e rivoluzione tecnologica. Data la disfunzionalità dei sistemi politico-istituzionali a fronte della rivoluzione tecnologica e delle sue conseguenze sul piano sociale e su quello geopolitico, negli Stati Uniti (ricordate l’assalto al Campidoglio e la tribalizzazione dello scontro politico) come in Europa (chi non parla ormai di riforma delle istituzioni comunitarie), la qualità del gruppi dirigenti è messa alla prova dalla necessità di mostrare creatività nella gestione della trasformazione. Anche perché i problemi dell’AI investono temi etici, concretamente connessi alle libertà di ciascuno: la nuova dimensione di efficienza che il potere politico-istituzionale deve sapersi conquistare può avere risvolti oscuri, che faranno sembrare idilliaca la fase di sviluppo digitale che abbiamo imparato a definire capitalismo della sorveglianza a ragione della pressione delle grandi piattaforme sulla privacy di tutti noi. D’altra parte, quando la potenza dell’AI consente di disegnare la human augmentation, ossia il potenziamento delle capacità sensoriali, fisiche e cognitive, anche attraverso l’integrazione tra intelligenze umana e artificiale, in un mondo cyberfisico che troveremo nella manifattura, nelle smart city e nei domini della guerra futura, la qualità intellettuale ed etica dei gruppi dirigenti diventa questione di sopravvivenza: lo ha scritto più volte Henry Kissinger, sinceramente preoccupato dell’impatto dell’AI sulla capacità della politica di tenere sotto controllo la sfera della guerra.
Francesca Balestrieri-Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Collana “Pensiero Libero”, Luiss University Press, Aprile 2024.

Poniamoci allora una domanda, nella realtà in cui siamo immersi: i ceti dirigenti del Paese, che hanno faticato in questi ultimi venti anni a misurarsi con la digitalizzazione, hanno gli strumenti culturali e organizzativi per affrontare questa nuova sfida di lungo periodo?

Strumenti culturali, perché occorre una visione sistemica della trasformazione, che non può essere gestita senza una visione d’insieme che connetta impresa, università, pubblica amministrazione, strutture educative, istituzioni.

E strumenti organizzativi, perché la competitività del Paese richiede che l’avanzamento sia sistemico e, dunque, che la politica non sia più indietro delle imprese e che queste riducano tra di loro il più possibile il gap tra gli innovatori e chi rischia di restare indietro.

Non possiamo non domandarci, allora, quali strutture della società civile e di quella politica siano in grado di assicurare un’adeguata selezione, formazione e coesione dei gruppi dirigenti del Paese a fronte di questa nuova decisiva sfida.

 

 

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