Dimostra che sei un essere umano


La legge 300 del 1970, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori, ha compiuto 50 anni lo scorso 20 maggio. Per decenni ha rappresentato la pietra filosofale di ogni problematica inerente il mondo del lavoro. Con la fine della guerra fredda, in una società totalmente cambiata e in un’epoca di confusione, si deve soprattutto ai dirigenti industriali, mai ripagati per questo, l’aver salvato produzione e lavoro

Lo statuto dei lavoratori – entrato in vigore giusto cinquant’anni fa, il 20 maggio del 1970 – è stato il documento di riferimento del mondo del lavoro in questo ultimo travagliato mezzo secolo. Già la sua data di nascita ne preannunciava in qualche modo la vita tribolata, perché quel 1970  ha rappresentato un punto di svolta nella vita del Paese.

Negli anni cinquanta e sessanta si era infatti sviluppato poderosamente il “boom economico” e l’industria italiana era cresciuta tumultuosamente senza guardarsi indietro e, talvolta, senza accorgersi di coloro che stava “lasciando indietro”. I movimenti di piazza del 1968 avevano dato un primo segnale di disagio, non da tutti compreso, e – pertanto – le sinistre e i progressisti moderati avevano accelerato l’elaborazione di una normativa di garanzia per il mondo del lavoro a livello individuale e sindacale che potesse fungere da valvola di sfogo per le tensioni crescenti nel Paese. Purtroppo non si raggiunse l’unità di intenti e il partito comunista, che al tempo rappresentava la larga parte del mondo operaio, si astenne nella definitiva votazione in senato. Questo fu, a mio avviso, un presagio delle lacerazioni sociali degli anni successivi.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Lo statuto dei lavoratori non riuscì pertanto a fare il miracolo. Vennero quindi gli anni dello scontro sociale che si sviluppò dapprima nelle piazze con manifestazioni di massa ma poi – nella fase del riflusso e della delusione – ebbe una cupa escalation nel terrorismo con tutte le inevitabili ripercussioni sulla stabilità delle istituzioni.

Quando, nella seconda metà degli anni ottanta, la tempesta passò, lo statuto dei lavoratori rimase comunque il principale terreno di scontro delle parti politiche in materia di lavoro. Ma nel frattempo le cose erano cambiate e la Legge 20 maggio 1970 non era più la bandiera del progressismo moderato del mondo socialista, come al tempo della sua approvazione, bensì era diventata proprio la bandiera della sinistra più dura e pura che era uscita dal periodo del terrorismo con una forte attitudine legalitaria. L’Italia, infatti, aveva ormai superato la crisi di crescita del boom economico e si era trasformata in un Paese diverso e gli stessi italiani erano diventati tutt’altra cosa.

Facendo un passo indietro con la memoria ricordiamo – infatti – che nell’Italia del dopoguerra più del cinquanta per cento della popolazione lavorava nell’agricoltura in modo tradizionale, che l’analfabetismo era molto diffuso e che la lingua italiana era la lingua nazionale solo sulla carta. Mentre alla fine degli anni ottanta l’Italia era diventata la settima potenza industriale del mondo e la prima manifattura d’Europa, l’analfabetismo era ormai un ricordo e la televisione nazionale aveva diffuso la lingua italiana in maniera definitiva in tutto il Paese.

Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970

L’elaborazione dello Statuto dei Lavoratori si deve in larga parte al lavoro del giuslavorista Gino Giugni

Negli anni ottanta anche gli italiani meno abbienti non si trovavano certo nelle condizioni di miseria del dopoguerra e, quindi, anche il mondo del lavoro era radicalmente cambiato sotto l’aspetto sociale. Tuttavia – ancora negli anni novanta e duemila e addirittura fino ai nostri giorni – lo statuto dei lavoratori ha continuato ad essere la pietra filosofale di ogni problematica inerente il mondo del lavoro, fino ad assurgere ad una specie di “totem” delle schermaglie politiche tra le varie maggioranze ed opposizioni che si sono succedute nel tempo. Questa battaglia sullo statuto dei lavoratori è stata, a mio avviso, un po’ la versione “in salsa sindacale” della grande infinita polemica politica sulla “destra” e sulla “sinistra”, in cui ognuna delle due parti continua ancora oggi ad accusare l’altra di essere ancorata agli schemi ideologici nati sugli idealismi della prima metà del Novecento. Da alcuni decenni ormai tutta questa polemica mi sembra molto datata e spesso paradossale e, a volte, perfino grottesca.

Il mondo è sempre stato percorso da idealismi politici e religiosi molto dinamici e ognuno di essi per affermarsi non ha mai avuto remore nel seppellire le epoche precedenti, allo stesso modo in cui le chiese cristiane sono state costruite sovente sulle fondamenta dei templi pagani. Ma dopo la seconda guerra mondiale è stato come se tutto si fosse congelato in una immagine fissa, “frizzata” come si direbbe con un neologismo informatico.

Dopo il rifiuto delle ideologie della società uscita scottata da due conflitti mondiali, quello che ha caratterizzato il mondo post ideologico è stata la staticità politica. E nei settant’anni successivi abbiamo continuato a discutere con le stesse categorie che erano uscite dalla seconda metà del Novecento. Ma in realtà quel mondo è finito al più tardi con la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino nel 1989. Da quel momento in poi tutto è cambiato ma è stato un po’ come se volessimo rifiutare di prenderne atto. E abbiamo continuato a discutere dello statuto dei lavoratori senza renderci conto che ormai i problemi erano diversi.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Le classi sociali si stavano frantumando. Una parte del proletariato diventava piccola borghesia, mentre una fetta della borghesia diventava un nuovo proletariato (ad esempio le giovani partite IVA esercenti professioni intellettuali, come architetti o avvocati). Una enorme massa di immigrazione (di cui nessuno conosce i numeri reali) andava a creare nuove categorie di proletari che non solo erano irregolari ma che alimentavano fenomeni di ghettizzazione all’interno di enclavi. L’equilibrio tra anziani e giovani veniva infranto in maniera drammatica, sia sul piano demografico, con l’aumento dell’aspettativa di vita e la crescita della natalità sottozero per decenni, e sia – soprattutto – sul piano socioeconomico con i giovani fermi al palo a causa di lauree non abilitanti alle professioni e di un blocco sociale di accesso al lavoro, determinatosi anche a causa dell’aumento indiscriminato dell’età pensionabile. La proliferazione incontrollata di attività di formazione post-laurea, unita all’incontenibile burocratizzazione sfociata nell’imposizione di licenze e di abilitazioni per qualsiasi attività (fosse pure soffiarsi il naso) hanno incanalato centinaia di migliaia di giovani in loop formativi che li portano ad ultimare gli studi in età più vicina ai quarant’anni che ai vent’anni. Potrei continuare a fare esempi per molte pagine.

Quasi ogni cosa è diversa da prima e forse sarebbe ora di rendersene conto e trovare il coraggio di uscire da questa stasi in cui ci troviamo da settant’anni. I dirigenti industriali costituiscono un esempio virtuoso in tal senso, perché le necessità fattuali della produzione li hanno costretti a restare agganciati al treno delle modifiche sociali e del progresso tecnologico, aggiornando continuamente le proprie convinzioni e le proprie conoscenze. Il fatto di individuare un chiaro obiettivo nella prosperità delle aziende ha consentito ai dirigenti di avere comunque una chiara bussola nella vita personale e professionale nonostante abbiano vissuto e vivano in un’epoca post ideologica, decisamente senza bussola. Grazie ai dirigenti industriali in quest’epoca di grande confusione si sono sapute comunque trovare, sia nella produzione che nei modelli del lavoro, tutte le soluzioni che hanno comunque consentito ai paesi occidentali di mantenere un ragionevole livello di prosperità pur in un periodo storico di politica molto debole e priva di una direzione certa.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Purtroppo nel concludere questo excursus storico sul mondo del lavoro degli ultimi cinquanta anni, devo constatare che manca il lieto fine. Perché i dirigenti non hanno avuto nulla a premiare la loro capacità di continuare a garantire il benessere e il lavoro del Paese, nonostante la confusione e l’estrema debolezza della politica. Quante volte ci siamo detti nelle aziende che dovevamo inventare nuovi modi per continuare a lavorare e produrre proficuamente nonostante le nuove misure sempre più burocratiche che, un anno dopo l’altro, hanno ingessato sempre di più il Paese negli ultimi trent’anni? Ma questi nostri meriti sono stati ripagati con l’incertezza del lavoro, con la diminuzione o eliminazione delle garanzie e con le accuse di essere dei privilegiati.

Alla fine il mondo del lavoro ha resistito non grazie alle leggi ma grazie alle persone e, soprattutto, grazie a un nucleo di manager industriali che, in ogni azienda, ha “remato” oltre i limiti umani per riuscire a salvare la produzione e il lavoro. Come dicevamo il mondo è molto cambiato negli ultimi cinquant’anni ed esiste una categoria che lo ha capito bene e di questo cambiamento ha compreso a fondo tutte le implicazioni. Sono i manager industriali italiani e sarebbe ora che la politica se ne rendesse conto e capisse che deve chiedere consiglio a questi uomini.