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Italia

Pensioni: la perequazione sperequata

Pensioni: la perequazione sperequata

In Spagna, dal primo gennaio 2023, le pensioni sono state aumentate dell’8,5%, cioè della medesima percentuale dell’incremento medio dei prezzi registrato nel 2022. Certamente il sistema previdenziale spagnolo è diverso dal nostro, i trattamenti (pensión de jubilación o pensíon de jubilación parcial) sono fissati prevalentemente col calcolo contributivo, però la perequazione ha seguito un criterio lineare.

Ecco la lettera che il ministro dell’Inclusione, della Previdenza Sociale e della Migrazione ha inviato ai pensionati spagnoli comunicando la rivalutazione del proprio trattamento

In Italia, invece, la rivalutazione piena (fissata al 7,3%) ha riguardato esclusivamente le pensioni inferiori a 2.100 euro lordi mensili (circa), maggiorata dell’1,5% per pensioni/assegni sociali e pensioni minime (attestate a poco più di 500 euro mensili). Tutte le altre hanno avuto una perequazione decrescente per fasce (e non per scaglioni) fino a giungere al 2,3% per quelle superiori (sempre circa) a 5.000 euro lordi.

Non si è voluto tener conto che coloro che, da questo mese, hanno iniziato a ricevere quanto effettivamente gli era dovuto a seguito dell’incremento dell’inflazione, è una popolazione di oltre 12 milioni di pensionati, alcuni dei quali oggettivamente sfortunati (giustamente da tutelare), altri semi-sfortunati (quelli che cumulano più pensioni), molti invece semplicemente evasori.

E il sostegno alle fasce (oggettivamente o solo apparentemente) più bisognose non è stato posto a carico della fiscalità generale, ma è stato finanziato ghigliottinando le pensioni superiori a 2.100 euro.

Insomma, da noi lo Stato ha assunto le sembianze di un moderno Robin Hood, ma non togliendo ai ricchi per dare ai poveri, bensì togliendo a dei presunti ricchi per dare in molti casi ai ricchi veri, quelli autenticamente tali, che però hanno avuto la scaltrezza (chiamiamola così!) di apparire poveri.

Chiariamo, al di là dell’ironia: sostenere chi è più fragile e più svantaggiato è un preciso dovere per un Paese civile e non è di questo che ci rammarichiamo, anzi a questo dovere vorremmo poter contribuire meglio.

Quello di cui invece ci rammarichiamo è che vengono svalutate le pensioni di 4 milioni di cittadini che sono quelli che hanno versato, più di tutti e in maniera continuativa per oltre 40 anni, i contributi sociali e le imposte, sono quelli che hanno sostenuto attivamente la tenuta del sistema di welfare e, oggi, sono ancora quelli che continuano a pagare una montagna di tasse che gli altri 12 milioni pagano in misura ridotta (i titolari di pensione tra 2 e 4 volte il minimo) o non pagano affatto (i beneficiari fino a 2 volte il minimo).

Questo è il quadro schematico della distribuzione delle pensioni in Italia (fonte: Inps, Statistiche in breve, Ottobre 2022): 16 milioni di pensionati per 22 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui circa 17 milioni aventi natura effettivamente previdenziale, cui si aggiungono quasi 5 milioni di pensioni di natura assistenziale (invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni o assegni sociali). Una popolazione di 16 milioni, di cui 1/4 finanzia la rivalutazione delle pensioni degli altri 3/4.

E non è questa l’unica sperequazione. Basti pensare alla norma introdotta dalla Finanziaria 2015 sul doppio calcolo, dopo che la Legge Fornero aveva stabilito, a partire dal 2012, la definitiva abolizione del sistema di calcolo retributivo e l’adozione per tutti del sistema di calcolo contributivo. Per tutti, ma non per tutti: infatti, nei casi in cui col nuovo meccanismo risulta un trattamento superiore rispetto a quello che sarebbe derivato col vecchio, allora il sistema abolito per la generalità dei pensionati resuscita per le vittime del doppio calcolo.

Ma non solo! Le economie prodotte dal doppio calcolo avrebbero dovuto essere destinate ad una finalità specifica: l’istituzione di un Fondo presso l’INPS, finalizzato a garantire l’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche per determinate categorie di soggetti. Però… il Fondo non è mai stato attivato, la norma che ne prevedeva l’istituzione è stata abrogata (Finanziaria 2020) e allora ci si chiede: ma quelle risorse a cosa sono state destinate?

C’è evidentemente un problema di equità del sistema previdenziale e c’è un problema di equità fiscale che pesano significativamente sul cosiddetto ceto medio, ritenuto un blocco sociale senza peso specifico che può essere utilizzato come fosse un bancomat.

Oramai, per la nostra categoria, il divario tra retribuzioni e pensioni, in rapporto ai contributi versati, è diventato insostenibile e la perequazione sperequata ne è una delle cause, forse la principale. Non sfuggono le ragioni che a suo tempo hanno indotto il legislatore a porre freni all’aumento della spesa pensionistica, ma quello che oggi risulta altamente iniquo è, da un lato, che il freno entra in azione a 2.100 euro lordi mensili (1.600 netti) e, dall’altro, che la riduzione del potere di acquisto dei pensionati avrebbe dovuto rappresentare una misura eccezione, tale da giustificare la momentanea compressione del principio costituzionale di proporzionalità, mentre ha finito per cristallizzare una regola su cui oramai da 15 anni si fonda  l’intero sistema.

Secondo un recente studio di Itinerari Previdenziali, tanto per dare un’idea di massima della svalutazione che – senza interventi correttivi – subiranno i nostri assegni nei prossimi 10 anni, (stimando l’ottimistica previsione di un’inflazione al 2%) le mancate rivalutazioni peseranno complessivamente per 45 miliardi, cui si andranno ad aggiungere la gran parte dei 56 miliardi di Irpef che pesano sulle pensioni.

E come ha più volte ricordato il nostro Presidente nazionale Cuzzilla, come si può pensare che il 60% dei produttori di reddito contribuiscano solo in misura dell’8% del totale di imposte e contributi, mentre il 40% deve farsi carico del restante 92%?

È questa la fotografia reale che ci restituisce il Paese quando andiamo in vacanza, al ristorante o, più semplicemente, osserviamo le auto che ci sorpassano in autostrada?

C’è qualcosa che non quadra, anzi c’è molto che non quadra, e non saranno di certo gli interventi alla Robin Hood che consentiranno un riequilibrio basato su criteri di effettiva equità e progressività

Gli aspetti da conoscere del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Italia

Si parla ormai da parte di tutte le forze politiche e delle istituzioni di PNRR. Pochi – per la verità – si sono avventurati per comprenderne in profondità i meccanismi, il contesto giuridico, economico e le reali possibili conseguenze.

Si può comprendere: si tratta di migliaia di pagine, di rinvii normativi, di interconnessioni continue fra istituzioni comunitarie e nazionali. La posta in gioco è molto alta: è lo sforzo di modernizzazione del nostro paese paragonabile al piano Marshall dell’immediato dopoguerra, ma dimensioni di gran lunga più rilevanti.

Di seguito, e in estrema sintesi, gli aspetti principali:

La nascita del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Italia: basi giuridiche e tappe principali

 

Base giuridica Risorse stanziate
REGOLAMENTO (UE) 2020/2094 DEL CONSIGLIO del 14 dicembre 2020 che istituisce uno strumento (NGEU) dell’Unione europea per la ripresa, a sostegno alla ripresa dell’economia dopo la crisi COVID-19 750 Mld Euro
REGOLAMENTO (UE) 2021/241 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 12 febbraio 2021 che istituisce il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza 672,5 Mld Euro

(360 Mld prestiti e 312,5 Mld sovvenzioni)

Il 25 aprile 2021 il Governo italiano ha ufficialmente trasmesso alla CE il Piano Nazionale di Ripresa e resilienza dell’Italia “Italia Domani” 235 miliardi di euro

(Risorse UE e Nazionali)

DECISIONE DI ESECUZIONE DEL CONSIGLIO del 13/07/2021 relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia /
DECRETO-LEGGE 6 maggio 2021, n. 59 “Misure urgenti relative al Fondo complementare al Piano nazionale di ripresa e resilienza e altre misure urgenti per gli investimenti” 30,6 Mld Euro

Risorse PNRR in Italia

L’importo complessivo del PNRR Italia è pari a 235,1 Mld Euro di cui:

  • 191,5 Mld Euro a valere sul RRF (€68,9 Mld di sovvenzioni e €122,6 Mld di prestiti) e di cui parte delle risorse sono state stanziate tramite il Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) per 15,6 mld di €;
  • è stato istituito un Fondo Nazionale Complementare per un importo complessivo pari a 30,6 mld di €;
  • 13 mld di € sono state assegnate per il tramite del Fondo React EU.

Struttura PNRR in Italia

Il PNRR contiene un pacchetto di riforme strutturali e investimenti per il periodo 2021-2026 articolato in 6 MISSIONI:

MISSIONE 1 – TRANSIZIONE DIGITALE, COMPETITIVITÀ, CULTURA E TURISMO

MISSIONE 2 – TRANSIZIONE VERDE

MISSIONE 3 – INFRASTRUTTURE PER UNA MOBILITÀ SOSTENIBILE

MISSIONE 4 – ISTRUZIONE E RICERCA

MISSIONE 5 – INCLUSIONE E COESIONE

MISSIONE 6 – SALUTE E RESILIENZA

Attuazione Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Italia

Legge n. 108 del 29 luglio 2021 (ex DL n. 77 del 31 maggio 2021) “Governance del Piano Nazionale di rilancio e resilienza prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”.

Come è evidente si tratta di una struttura di piano di estrema complessità che avrà bisogno – per un efficace governance – di capacità professionali e di coordinamento notevoli.

Ma vediamo di approfondirne alcuni aspetti.

La novità più significativa – come notato da molti editorialisti – è data dal fatto che si è finalmente creato un “debito comune” fra i paesi aderenti all’Unione Europea. In sostanza il denaro da spendere non viene dal bilancio comunitario alimentato – come è noto – attraverso diversi meccanismi dagli stati aderenti. È la stessa Unione Europea – soggetto transnazionale – ad indebitarsi sul mercato finanziario, con la forza della sua credibilità e del suo rating AAA. È di tutta evidenza che il cambiamento è storico soprattutto con riferimento alle diverse sensibilità fra parte “rigorista” (nord Europa) e gli stati che durante la crisi dell’euro erano chiamati PIIGS, acronimo riferito anche al nostro paese. Ovviamente sono gli stessi stati membri a doversi fare carico della restituzione del denaro preso a debito entro il lontano 2056.

La sfida maggiore è data dalla scadenza, fissata nei regolamenti, ed è – come è noto – il 31 dicembre 2026. Osservo sommessamente che si analizza la serie storica della capacità di spesa di amministrazioni pubbliche nazionali e locali, sembra un obiettivo a dir poco rivoluzionario per il nostro paese.

La Commissione europea ha erogato ieri all’Italia il prefinanziamento a valere sul Piano Nazionale di Ripresa e resilienza (PNRR) per un importo di 24,9 miliardi di euro, pari al 13% dei 190,5 miliardi stanziati a favore del paese. I 24,9 miliardi di euro sono composti per 8,957 miliardi da aiuti a fondo perduto e per 15,937 miliardi da prestiti. I pagamenti del rimanente 87% saranno versati in base al completamento dei target fissati.

Oltre ai target fisici, collegati ad investimenti ben individuati, sono stati previsti nel piano obiettivi di riforma di significato enorme. Basti pensare all’efficientamento della Pubblica Amministrazione, all’accelerazione della giustizia civile e penale, rafforzamento della concorrenza, riforma fiscale e modernizzazione del mercato del lavoro.

A conclusione di questa sintetica analisi, è opportuno concentrarsi sulla parte del piano relativo alle riforme: perché i piani nazionali di ripresa e resilienza sono soprattutto piani di riforma.

Le riforme debbono avere lo scopo di affrontare le debolezze del paese sia un’ottica strutturale, sia ai fini della ripresa e resilienza del sistema economico e sociale, a fronte delle trasformazioni provocate dalla crisi pandemica.

Il piano delinea tre tipologie di riforme: orizzontali, abilitanti e settoriali. La riforma della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario fanno parte delle riforme orizzontali.

L’importanza della ricerca e di giovani talenti

L’importanza della ricerca e di giovani talenti

A rispondere alle “3 domande” di questo numero è Valeria Giliberti, 32 anni, ricercatrice post-doc all’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma (Center for Life NanoScience, CLNS-IIT), ente che sostiene collaborazioni tra gruppi di ricerca e aziende private volte a favorire lo sviluppo scientifico e tecnologico della realtà italiana

Secondo l’annuario Scienza e Società 2020, l’Italia appare debole sul fronte dell’innovazione, si piazza al 27° posto per la spesa in ricerca e all’8° in termini di risultati ma, dato ancor più significativo, 9 ricercatori talentuosi su 10 non sono adeguatamente attenzionati dai media. I mesi appena trascorsi hanno prepotentemente ridefinito l’ordine delle priorità a livello globale, ponendo il settore della ricerca in primo piano per lo sviluppo scientifico e tecnologico di ogni Paese. La pandemia, in un certo senso, ha ricordato a noi Italiani che siamo un Paese ricco di giovani talenti capaci di distinguersi e competere su scala mondialeL’Istituto Italiano di Tecnologia rappresenta, in tal senso, un’eccellenza del nostro territorio. Abbiamo chiesto a Valeria Giliberti di raccontarci la sua esperienza di giovane ricercatrice.

Dottoressa, cosa l’ha portata all’IIT e di cosa si occupa nello specifico?

Dopo la laurea in Fisica e il dottorato in Scienza dei Materiali, ho scelto di orientare il mio percorso lavorativo volendo coniugare l’attività di ricerca di base con progetti che avessero una valenza più tecnologica e applicativa. L’ITT rende possibile quella sinergia tra ricerca e applicazione che può definire il destino di ogni progetto scientifico. All’interno del CLNS-IIT, sono impegnata in varie attività di ricerca di base. Sono stata responsabile di unità di ricerca del progetto “Microscopio Confocale TeraHertz per diagnostica tumori della pelle”MiCOTED, finanziato dalla Regione Lazio e co-finanziato dall’Unione Europea, nell’ambito del bando LIFE2020 del Programma Operativo FESR (Fondo europeo di sviluppo regionale) 2014-2020.Di cosa si tratta in particolare?  Qual è il valore aggiunto di un progetto di ricerca cofinanziato a livello europeo?

Parliamo di un progetto imprenditoriale di sviluppo di tecnologie avanzate per la progettazione e la realizzazione di dispositivi biomedicali.  MiCOTED vanta come principale partner l’azienda Crisel Instruments, leader nel campo della strumentazione per la microscopia e la spettroscopia e incarna l’intento di mettere in sinergia l’attività di ricerca e il sostegno prezioso di partner privati, laddove sembra profilarsi un vicendevole vantaggio tra sviluppo scientifico-tecnologico e iniziativa imprenditoriale. Le attività riconducibili a MiCOTED hanno reso disponibile un microscopio operante nella banda elettromagnetica del TeraHertz. Tale strumento potenzialmente potrebbe ampliare le possibilità di diagnosi di anomalie cutanee, tramite un’indagine in profondità, ma non invasiva, di tessuti al di sotto dell’epidermide, che risultano opachi alla luce visibile.

Pubblico e privato a supporto di scienza e tecnologia. Un lavoro di squadra dunque? Come si coniuga il lavoro della ricerca con il mondo dell’impresa?

Personalmente ritengo fondamentale segnalare come ricaduta positiva di questo progetto il proseguimento della collaborazione con Crisel Instruments, che continua altresì a favorire l’avanzamento delle attività sperimentali iniziate in fase progettuale. Ho trovato particolarmente significativo poter mettere a disposizione le mie conoscenze scientifiche, nel campo della tecnologia nella banda elettromagnetica del TeraHertz, al fine di contribuire allo sviluppo di ambiti di ricerca così prossimamente connessi al benessere e alla salute delle persone. 

Grazie Dottoressa. Cogliamo l’occasione per porgerle i nostri auguri per la recente maternità. La sua storia di impegno e successo, ci indica da dove ripartire per lasciare ai nostri figli un Paese in cui restare è la scelta più intelligente, non la più coraggiosa.

Valeria Gilberti, ricercatrice presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma

L’Intelligence a tutela degli interessi nazionali: dalla sicurezza economica a quella cibernetica

L’Intelligence a tutela degli interessi nazionali: dalla sicurezza economica a quella cibernetica

Le funzioni, attribuzioni e responsabilità del Comparto intelligence nazionale sono state incise in maniera profonda dalla legge 124 del 2007, istitutiva del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica. Con la legge di riforma si schiuse l’orizzonte della tutela di un novero di interessi nazionali ben più ampi rispetto al consolidato ambito “politico-militare”, orientando il lavoro dell’Intelligence moderna anche alla difesa degli interessi economici, scientifici ed industriali dell’Italia.

I Servizi sono oggi chiamati a lavorare anche per sostenere l’impegno del Paese nella competizione economica su scala planetaria. Rientra, infatti, fra i compiti del Comparto quello di mettere a fattor comune tutte le sue risorse per finalizzarle alla tutela di una sicurezza nazionale intesa in senso ampio, nella quale la dimensione cosiddetta “ecofin” è per l’appunto centrale, come si conviene ad un’economia di mercato quale è la nostra, fortemente internazionalizzata e caratterizzata da un elevato grado di apertura al commercio internazionale.

Per “sicurezza economica” si intende, peraltro, non una semplice congerie di informative puntiformi sui fattori di rischio per questa o quella singola componente del nostro tessuto produttivo o del nostro sistema di infrastrutture critiche, bensì – come di fatto accade e come è doveroso che accada in una Nazione a costituzionalismo democratico – un approccio organico che, esclusivamente sulla base della pianificazione informativa approvata dal Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (CISR), munisce i titolari del “decision making” governativo del dato informativo e degli strumenti conoscitivi necessari per tutelare l’interesse nazionale ed i gangli vitali del Sistema Paese.Decisiva diventa l’osmosi tra pubblico e privato, poiché, in concreto, non può esserci sicurezza economica nazionale se non vengono efficacemente tutelati tutti i soggetti imprenditoriali privati esposti a rischi, minacce o aggressioni che minano il patrimonio tecnologico, il know how industriale, i marchi, le strategie e le “brand reputation”. A cominciare da coloro i quali gestiscono infrastrutture critiche, erogano servizi di pubblica utilità ed operano nei settori strategici del Paese. Ma non solo: anche di tutti quelli che, compreso il tessuto di piccole e medie imprese, danno corpo al nostro sistema produttivo e che, per ciò stesso, sono chiamati ad un coinvolgimento attivo e responsabile, anzitutto in termini di consapevolezza diffusa e di abito mentale.

La sicurezza non deve essere più considerata un costo, bensì “l’investimento” per eccellenza dal quale, in misura crescente nel prossimo futuro, dipenderà la buona riuscita di qualsiasi altro. È, infatti, arduo immaginare che la competizione internazionale possa farsi, d’ora innanzi, “meno” accesa ed agguerrita. Al contrario, sarà sempre più connessa agli avanzamenti tecnologici e cibernetici, e sarà sempre più incline, nella sua declinazione concreta, a profilare “trappole” e forme mascherate di aggressione, specie nell’ambito degli investimenti diretti esteri, delle operazioni di fusione e acquisizione e dei fenomeni di concorrenza sleale in danno delle nostre imprese, di cui l’Intelligence ha ampiamente trattato nella Relazione annuale al Parlamento.

È utile, in sostanza, rafforzare gli strumenti a disposizione dell’Intelligence nazionale. Che, è bene ricordarlo, da ben prima che l’epidemia di Coronavirus dilagasse e si riverberasse sull’economia nazionale e mondiale poteva già fare affidamento su una cornice normativa molto robusta ed avanzata. A profili di rischio, attacchi, vulnerabilità ed ingerenze a matrice ibrida, che tendono a dissolvere la distinzione fra minaccia cibernetica e minaccia economico-finanziaria, può infatti corrispondere un livello di resilienza adeguato solo a condizione di disporre di una disciplina organica a tutela degli interessi nazionali nei settori strategici.

In particolare, la novellazione e la conseguente risistemazione del quadro normativo in materia di sicurezza nazionale attuate nel corso del 2019 hanno costituito, nella loro essenza, un tentativo ben riuscito di declinare in maniera moderna l’interesse nazionale. Sullo sfondo di una crescita culturale e di una presa di coscienza vieppiù ampie, incoraggiate dalle campagne nazionali di consapevolezza e formazione promosse dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), sono state infatti adottate innovative iniziative legislative intese ad elevare il livello di prevenzione e contrasto delle minacce legate alla trasformazione digitale.Vi era, in sostanza, una priorità non dilazionabile: imbastire una compiuta, articolata e coerente traduzione normativa della nozione di interesse nazionale, volta a mettere in sicurezza tutto quello che deve esserne considerato il cuore, vale a dire il know how, gli assetti, i sistemi, le reti ed i servizi di valore strategico: tutto ciò che, alla luce dell’estensione sconfinata del cyberspazio, della ramificazione capillare delle infotecnologie e della traslazione nel mondo digitale di quasi ogni aspetto della vita umana, va considerato come l’insieme degli “organi vitali” per antonomasia di un Paese.

È stato dunque finalizzato un impianto normativo che costituisce un esempio molto sofisticato di legislazione in materia di sicurezza nazionale e che dà corpo ad un vero e proprio “sistema integrato” di scrutinio degli investimenti e scrutinio tecnologico.

In chiave di intelligence economica, a rilevare sono, specificamente, i profili di scrutinio degli investimenti, nella misura in cui tale filone dell’attività degli Organismi si dipana proprio “in armonia con” e “a supporto del” framework di tutela che trova nella normativa sul Golden Power asse portante e punto di riferimento.

In conclusione, l’architettura normativa che disciplina il Comparto informativo nazionale prese le mosse, nel 2007, dagli spartiacque che segnarono quell’epoca e per tale motivo risulta, ancor oggi, solida nell’impianto e, parimenti, flessibile nell’adattabilità al cambiamento.

Il Paese può, dunque, fare affidamento su un’Intelligence alla quale, in ciascuno degli ambiti di sua pertinenza, sono connaturate tanto la propensione a cogliere il cambiamento, quanto l’attitudine ad assolvere alla propria missione istituzionale accostandosi con senso di responsabilità agli interrogativi cui il decisore politico e la cittadinanza la chiamano a rispondere: con il perseguimento del bene comune quale unica bussola, in piena aderenza agli obiettivi fissati dall’Autorità di Governo e sotto il controllo parlamentare.

L’impegno per la “Res Publica”

L’impegno per la “Res Publica”

In Italia, a fronte di un’economia mondiale globalizzata, dove a dominare sono i poteri forti della finanza, si sente l’esigenza di una classe dirigente all’altezza, capace di rispondere alle sfide che la contemporaneità pone. Serve rilanciare la passione civile per la “Res Publica”, coniugando le aspettative dei giovani e l’esperienza degli anziani

Era il 2008, quando in America era già scoppiata la crisi dei mutui sub prime e gli effetti si erano abbattuti, subito dopo anche sui conti delle banche, dei fondi previdenziali, delle compagnie assicurative e dei fondi comuni d’investimento italiani. La follia di una finanza spregiudicata che aveva confezionato titoli tossici, stava devastando il sistema finanziario mondiale. La reazione a catena metteva ancora di più in risalto la globalizzazione e un mercato che non voleva, e che non ha regole, grazie all’accondiscendenza delle classi politiche votate, di fatto, al liberismo più sfrenato.

La “Globalizzazione”, una parola prima tanto osannata oggi tanto temuta, è un fenomeno con il quale siamo entrati in confidenza solo dalla fine del secolo scorso. In realtà è una dimensione con la quale l’occidente ha avuto a che fare sin dall’espansione dell’Impero Romano sotto Traiano (II secolo d.C.). E poi, via via, con i viaggi di Marco Polo in Cina, verso la fine del XIII secolo, con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492, con le esplorazioni di Vasco de Gama che tentò la navigazione diretta fino all’India e con Ferdinando Magellano, il primo a tentare la circumnavigazione del globo.

La conquista di altri Stati e il loro asservimento a Roma prima e agli altri Paesi colonialisti dopo, favorì lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e i conseguenti scambi commerciali che svilupparono le interconnessioni economiche e culturali tra paesi lontani, fino ad allora vissuti in una sorta di autarchia.

È evidente che la globalizzazione determina il dominio dei poteri potenti su quelli più fragili. Oggi i potenti della finanza hanno sottomesso gli Stati più fragili e meno sviluppati alle regole ferree del dominio dei capitali su qualsiasi altra necessità sociale ed economica. Questa è la tragica sintesi della situazione in cui ci troviamo.

Ricordo che quando il fenomeno iniziò a prendere piede, alcuni di noi obiettarono che questo mantra della globalizzazione, avrebbe ridotto gli Stati e le popolazioni a meri servitori di pochi grandi manovratori. Mettevamo in evidenza che l’arretratezza di alcuni paesi, nella competizione globale, poteva essere mitigata solo da interventi mirati dello stato in ambiti ben precisi, nei quali i privati non avevano interesse ad investire. In definitiva affermavamo niente di più e niente di meno di quello che avrebbero proposto degli economisti di stampo keynesiano e liberale. E noi ci univamo a questi. L’impegno per la “Res Publica”Dopo oltre 25 anni dalla fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, abbiamo un Paese ingessato, incapace di voltare pagina e programmare il proprio futuro alla luce dei cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo. Il problema alla base di questo disastro è la mancanza di una classe dirigente all’altezza dei compiti che la contemporaneità ci pone. Questo è certamente uno dei primi temi che dovrebbe essere messo in un’agenda della politica e del nostro Governo in particolare.

Risolvere questa problematica, significherebbe ripartire con il piede giusto per rilanciare la passione civile per la “Res Publica”. Oggi, per comprenderne la portata e il significato di questa locuzione, basterebbe richiamare il pensiero di un grande pensatore e giurista vissuto nel I° secolo a.C., Marco Tullio Cicerone, il quale nel suo trattato politico “De re publica” ci dice: ”’La res publica’ è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse”. E ancora, come diceva Bertrand Russel: “L’educazione dovrebbe inculcare l’idea che l’umanità è una sola famiglia con interessi comuni”.

Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970

La legge 300 del 1970, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori, ha compiuto 50 anni lo scorso 20 maggio. Per decenni ha rappresentato la pietra filosofale di ogni problematica inerente il mondo del lavoro. Con la fine della guerra fredda, in una società totalmente cambiata e in un’epoca di confusione, si deve soprattutto ai dirigenti industriali, mai ripagati per questo, l’aver salvato produzione e lavoro

Lo statuto dei lavoratori – entrato in vigore giusto cinquant’anni fa, il 20 maggio del 1970 – è stato il documento di riferimento del mondo del lavoro in questo ultimo travagliato mezzo secolo. Già la sua data di nascita ne preannunciava in qualche modo la vita tribolata, perché quel 1970  ha rappresentato un punto di svolta nella vita del Paese.

Negli anni cinquanta e sessanta si era infatti sviluppato poderosamente il “boom economico” e l’industria italiana era cresciuta tumultuosamente senza guardarsi indietro e, talvolta, senza accorgersi di coloro che stava “lasciando indietro”. I movimenti di piazza del 1968 avevano dato un primo segnale di disagio, non da tutti compreso, e – pertanto – le sinistre e i progressisti moderati avevano accelerato l’elaborazione di una normativa di garanzia per il mondo del lavoro a livello individuale e sindacale che potesse fungere da valvola di sfogo per le tensioni crescenti nel Paese. Purtroppo non si raggiunse l’unità di intenti e il partito comunista, che al tempo rappresentava la larga parte del mondo operaio, si astenne nella definitiva votazione in senato. Questo fu, a mio avviso, un presagio delle lacerazioni sociali degli anni successivi.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Lo statuto dei lavoratori non riuscì pertanto a fare il miracolo. Vennero quindi gli anni dello scontro sociale che si sviluppò dapprima nelle piazze con manifestazioni di massa ma poi – nella fase del riflusso e della delusione – ebbe una cupa escalation nel terrorismo con tutte le inevitabili ripercussioni sulla stabilità delle istituzioni.

Quando, nella seconda metà degli anni ottanta, la tempesta passò, lo statuto dei lavoratori rimase comunque il principale terreno di scontro delle parti politiche in materia di lavoro. Ma nel frattempo le cose erano cambiate e la Legge 20 maggio 1970 non era più la bandiera del progressismo moderato del mondo socialista, come al tempo della sua approvazione, bensì era diventata proprio la bandiera della sinistra più dura e pura che era uscita dal periodo del terrorismo con una forte attitudine legalitaria. L’Italia, infatti, aveva ormai superato la crisi di crescita del boom economico e si era trasformata in un Paese diverso e gli stessi italiani erano diventati tutt’altra cosa.

Facendo un passo indietro con la memoria ricordiamo – infatti – che nell’Italia del dopoguerra più del cinquanta per cento della popolazione lavorava nell’agricoltura in modo tradizionale, che l’analfabetismo era molto diffuso e che la lingua italiana era la lingua nazionale solo sulla carta. Mentre alla fine degli anni ottanta l’Italia era diventata la settima potenza industriale del mondo e la prima manifattura d’Europa, l’analfabetismo era ormai un ricordo e la televisione nazionale aveva diffuso la lingua italiana in maniera definitiva in tutto il Paese.

Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970

L’elaborazione dello Statuto dei Lavoratori si deve in larga parte al lavoro del giuslavorista Gino Giugni

Negli anni ottanta anche gli italiani meno abbienti non si trovavano certo nelle condizioni di miseria del dopoguerra e, quindi, anche il mondo del lavoro era radicalmente cambiato sotto l’aspetto sociale. Tuttavia – ancora negli anni novanta e duemila e addirittura fino ai nostri giorni – lo statuto dei lavoratori ha continuato ad essere la pietra filosofale di ogni problematica inerente il mondo del lavoro, fino ad assurgere ad una specie di “totem” delle schermaglie politiche tra le varie maggioranze ed opposizioni che si sono succedute nel tempo. Questa battaglia sullo statuto dei lavoratori è stata, a mio avviso, un po’ la versione “in salsa sindacale” della grande infinita polemica politica sulla “destra” e sulla “sinistra”, in cui ognuna delle due parti continua ancora oggi ad accusare l’altra di essere ancorata agli schemi ideologici nati sugli idealismi della prima metà del Novecento. Da alcuni decenni ormai tutta questa polemica mi sembra molto datata e spesso paradossale e, a volte, perfino grottesca.

Il mondo è sempre stato percorso da idealismi politici e religiosi molto dinamici e ognuno di essi per affermarsi non ha mai avuto remore nel seppellire le epoche precedenti, allo stesso modo in cui le chiese cristiane sono state costruite sovente sulle fondamenta dei templi pagani. Ma dopo la seconda guerra mondiale è stato come se tutto si fosse congelato in una immagine fissa, “frizzata” come si direbbe con un neologismo informatico.

Dopo il rifiuto delle ideologie della società uscita scottata da due conflitti mondiali, quello che ha caratterizzato il mondo post ideologico è stata la staticità politica. E nei settant’anni successivi abbiamo continuato a discutere con le stesse categorie che erano uscite dalla seconda metà del Novecento. Ma in realtà quel mondo è finito al più tardi con la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino nel 1989. Da quel momento in poi tutto è cambiato ma è stato un po’ come se volessimo rifiutare di prenderne atto. E abbiamo continuato a discutere dello statuto dei lavoratori senza renderci conto che ormai i problemi erano diversi.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Le classi sociali si stavano frantumando. Una parte del proletariato diventava piccola borghesia, mentre una fetta della borghesia diventava un nuovo proletariato (ad esempio le giovani partite IVA esercenti professioni intellettuali, come architetti o avvocati). Una enorme massa di immigrazione (di cui nessuno conosce i numeri reali) andava a creare nuove categorie di proletari che non solo erano irregolari ma che alimentavano fenomeni di ghettizzazione all’interno di enclavi. L’equilibrio tra anziani e giovani veniva infranto in maniera drammatica, sia sul piano demografico, con l’aumento dell’aspettativa di vita e la crescita della natalità sottozero per decenni, e sia – soprattutto – sul piano socioeconomico con i giovani fermi al palo a causa di lauree non abilitanti alle professioni e di un blocco sociale di accesso al lavoro, determinatosi anche a causa dell’aumento indiscriminato dell’età pensionabile. La proliferazione incontrollata di attività di formazione post-laurea, unita all’incontenibile burocratizzazione sfociata nell’imposizione di licenze e di abilitazioni per qualsiasi attività (fosse pure soffiarsi il naso) hanno incanalato centinaia di migliaia di giovani in loop formativi che li portano ad ultimare gli studi in età più vicina ai quarant’anni che ai vent’anni. Potrei continuare a fare esempi per molte pagine.

Quasi ogni cosa è diversa da prima e forse sarebbe ora di rendersene conto e trovare il coraggio di uscire da questa stasi in cui ci troviamo da settant’anni. I dirigenti industriali costituiscono un esempio virtuoso in tal senso, perché le necessità fattuali della produzione li hanno costretti a restare agganciati al treno delle modifiche sociali e del progresso tecnologico, aggiornando continuamente le proprie convinzioni e le proprie conoscenze. Il fatto di individuare un chiaro obiettivo nella prosperità delle aziende ha consentito ai dirigenti di avere comunque una chiara bussola nella vita personale e professionale nonostante abbiano vissuto e vivano in un’epoca post ideologica, decisamente senza bussola. Grazie ai dirigenti industriali in quest’epoca di grande confusione si sono sapute comunque trovare, sia nella produzione che nei modelli del lavoro, tutte le soluzioni che hanno comunque consentito ai paesi occidentali di mantenere un ragionevole livello di prosperità pur in un periodo storico di politica molto debole e priva di una direzione certa.Il mondo del lavoro dopo 50 anni dal 20 maggio 1970Purtroppo nel concludere questo excursus storico sul mondo del lavoro degli ultimi cinquanta anni, devo constatare che manca il lieto fine. Perché i dirigenti non hanno avuto nulla a premiare la loro capacità di continuare a garantire il benessere e il lavoro del Paese, nonostante la confusione e l’estrema debolezza della politica. Quante volte ci siamo detti nelle aziende che dovevamo inventare nuovi modi per continuare a lavorare e produrre proficuamente nonostante le nuove misure sempre più burocratiche che, un anno dopo l’altro, hanno ingessato sempre di più il Paese negli ultimi trent’anni? Ma questi nostri meriti sono stati ripagati con l’incertezza del lavoro, con la diminuzione o eliminazione delle garanzie e con le accuse di essere dei privilegiati.

Alla fine il mondo del lavoro ha resistito non grazie alle leggi ma grazie alle persone e, soprattutto, grazie a un nucleo di manager industriali che, in ogni azienda, ha “remato” oltre i limiti umani per riuscire a salvare la produzione e il lavoro. Come dicevamo il mondo è molto cambiato negli ultimi cinquant’anni ed esiste una categoria che lo ha capito bene e di questo cambiamento ha compreso a fondo tutte le implicazioni. Sono i manager industriali italiani e sarebbe ora che la politica se ne rendesse conto e capisse che deve chiedere consiglio a questi uomini.

Lo spirito dei manager del dopoguerra

Per gran parte del sistema industriale e larghe fette del sistema produttivo, è difficile oggi fare previsioni di ripresa. Noi, quali eredi dei manager del dopoguerra, dobbiamo rifarci al loro spirito esemplare che ha reso possibile la ricostruzione del Paese

La tempesta del Covid-19 è piombata sulla nostra penisola del tutto inattesa, investendo il sistema industriale come una tempesta d’autunno che oscura una bella giornata di sole con basse nuvole nere spinte da venti burrascosi. Ancora alla metà di febbraio le nostre agende di lavoro erano piene di appuntamenti e di viaggi d’affari. La mente dei manager italiani era già protesa verso gli appuntamenti di fine inverno: le approvazioni dei bilanci, le assemblee e, per noi di Federmanager, il Consiglio Nazionale e le nomine per nostri preziosi enti previdenziali e assistenziali (il Fasi, il Previndai e tanti altri).

Poi, a partire dalla fine di febbraio, è accaduto l’impensabile. I primi appuntamenti importanti sono stati rinviati più che altro per ragioni cautelari ma, con l’inizio di marzo, la situazione è rapidamente precipitata. Credo che abbiamo vissuto tutti più o meno la stessa esperienza. Vedevo che, di giorno in giorno, la mia agenda si svuotava e le aziende cominciavano a sconsigliare vivamente le trasferte. Il venerdì mattina ho avuto un ultimo appuntamento a Firenze per me molto importante. Il treno era semivuoto e il personale di viaggio, vestito con mezzi di protezione, si teneva a debita distanza. Tornato a Roma nel pomeriggio ho saputo che la mia azienda stava per chiudere la sede e metterci tutti, giustamente, in smart working. Ho fatto un salto in sede a recuperare il computer e i documenti essenziali e sono andato via senza guardarmi indietro.

Le conseguenze di questa tempesta sul sistema produttivo sono state simili a quelle di una guerra, con l’azzeramento temporaneo di gran parte del sistema industriale e con larghe fette di sistema produttivo per le quali non esiste ancora la possibilità di fare una previsione di ripresa come, ad esempio, il mondo del turismo e dei locali da ballo.

La cosa peggiore è che oggi non è possibile immaginare quali saranno le reali conseguenze di ciò che è accaduto. E’ difficile prevedere l’andamento della pandemia ma ancora più difficile è immaginare dove andrà ad atterrare questa crisi economica. Quanti punti di PIL perderemo quest’anno? Forse dieci? Forse venti? Quali saranno le conseguenze sulle entrate fiscali? E quali i dolorosi provvedimenti che si dovranno prendere?

A causa delle responsabilità che gravano sulle loro spalle, i manager sono abituati a guardare lontano e i nostri occhi sono già fissi sull’autunno e sulla fine dell’anno, quando dovremo affrontare una recessione senza precedenti. La crisi del duemilanove, dalla quale peraltro non ci siamo ancora ripresi, è stata niente rispetto a quello che stiamo per affrontare. L’unico paragone possibile è quello del secondo dopoguerra. E quando, per la prima volta, ho formulato questo pensiero, mi è sembrato quasi un segno del destino. Perché molte volte, parlando nei nostri appuntamenti ufficiali delle Assemblee e dei Consigli di Federmanager Roma, mi è capitato di citare lo spirito dei manager italiani del dopoguerra, come quello spirito esemplare che ha reso possibile la ricostruzione del Paese. Noi oggi siamo gli eredi di quello spirito che abbiamo mantenuto vivo tenendo saldamente in pugno la barra del timone delle imprese nonostante l’ingratitudine da cui siamo stati sovente circondati.

Quando la crisi del debito si mostrerà in tutta la sua forza molti inizieranno ad osservare che in Italia il risparmio privato è superiore al debito pubblico e si ricomincerà a parlare di patrimoniale, di altri improvvidi provvedimenti a carico delle pensioni più alte ovvero, ancora peggio, di prelievi dai conti correnti. A questo punto, al netto degli aiuti europei, ci sarà una sola strada possibile: quella dell’acquisto di una parte del debito del Paese da parte degli Italiani stessi su base strettamente volontaria mediante l’emissione di buoni del tesoro di lunga durata, con un congruo periodo di divieto di alienazione e, soprattutto, defiscalizzati, anche se con un tasso di interesse molto basso. I manager italiani amano il loro paese e certamente non si tireranno indietro ed è ragionevole pensare che tutti insieme, con le altre categorie sociali e del lavoro, sapremo trovare la liquidità necessaria per tamponare la falla.

Superata l’emergenza sarà compito nostro come manager ripartire, ritrovando dentro di noi quello spirito dei manager del dopoguerra che fu dei nostri nonni e dei nostri padri. Noi e i nostri figli dovremo fare altrettanto e dovremo scoprire dentro di noi che ne siamo capaci.

Dovremo smettere di parlare a vuoto di eliminare la burocrazia. Questa volta dovremo eliminarla veramente la burocrazia. Dovremo convincere il Paese che costringere le industrie in una ragnatele di procedure inestricabili non elimina affatto i rischi ma elimina totalmente l’attività produttiva. In una recente trasmissione televisiva in cui si parlava del ritardo nell’acquisto delle mascherine ho sentito qualcuno dire che i ritardi delle gare erano il prezzo da pagare per avere garanzie sui prodotti e sul prezzo. La storia ci insegna che questa affermazione non è vera. L’unica vera garanzia è avere un manager che sia un uomo onesto e che, al contempo, conosca la qualità e il prezzo di quel tipo di prodotto. Solo in questo modo si potrà avere un acquisto rapido e con tutte le tutele. Sia pure nel benessere, o forse proprio a causa di esso, negli ultimi settanta anni il nostro Paese ha perduto progressivamente la cognizione di queste verità. Ma oggi ha l’occasione di rinascere per una seconda volta, affidandosi con fiducia ai manager per i quali lo spirito del dopoguerra non è mai finito.

Scelte giuste, scelte obbligate

Scelte giuste, scelte obbligate

Scelte giuste, scelte obbligate. Nell’avvio della “fase 2” prioritarie rimangono la sicurezza e la salute. Al governo chiediamo linee guida comuni che tutelino i posti di lavoro, evitando confusione, superando contrapposizioni e riconoscendo il ruolo fondamentale che le organizzazioni di rappresentanza svolgono sul piano operativo. Servono responsabilità e competenza, per questo è importante affidarsi ai manager d’azienda

È con prudenza, ma grande determinazione che dobbiamo avviare la cosiddetta “fase 2”, una fase estremamente delicata, in cui è indispensabile non commettere errori, ma anche muoversi con slancio, rapidità ed efficienza.

Come ho più volte sostenuto, la questione va posta sul “come” ripartire, non certo sui tempi. A chi mi ha chiesto finora quando riaprire l’industria, ho sempre risposto subito. Perché è il “come” aprire l’unica vera variabile da considerare.

La prima scelta riguarda la sicurezza e la salute dei lavoratori. Senza garanzie adeguate su questo, l’Italia può solo retrocedere. Seconda scelta riguarda la catena di comando. Una riapertura a “macchia di leopardo” come alcuni prospettano potrebbe essere un boomerang. Non ci possono essere divergenze o localismi nella ripartenza, bensì scelte condivise: un Paese coeso e unito è quello di cui tutti abbiamo bisogno.

Questo, attenzione, nel rispetto della ricca diversità territoriale che caratterizza il nostro tessuto industriale. Ogni industria, ogni piccola o media impresa deve essere lasciata libera di poter adottare le migliori soluzioni per la continuità del business in raccordo con tutti gli stakeholder e nel rispetto di un quadro normativo e autorizzativo chiaro.

Siamo ancora lontani da questo orizzonte. E questo è il terzo impegno da prendere.

Al governo chiediamo linee guida comuni che tutelino i posti di lavoro e la salute evitando confusione, superando contrapposizioni e riconoscendo il ruolo fondamentale che le organizzazioni di rappresentanza svolgono sul piano operativo. Mai come in questo momento la capacità di riorganizzare il lavoro e di tutelare la salute dei lavoratori deve passare attraverso chi ha l’onere della rappresentanza, con l’obiettivo di cambiare i vecchi modelli di relazioni industriali per disegnarne di nuovi.

Bisogna proteggere gli asset strategici, come ha fatto il Governo con la golden power ad esempio, ma anche irrorare di liquidità le imprese che possono vincere la sfida. Scegliendo, ancora una volta, chi sostenere, su cosa puntare, come muoversi in Europa.

Stime attendibili preannunciano che il Pil italiano si ridurrà di oltre il 10% nei primi due trimestri del 2020. In termini di finanza pubblica, il deficit previsto nel Def per il 2020 torna a livelli mai sperimentati dalla firma del trattato di Maastricht. Se guardiamo ai nostri conti, dobbiamo avvertire molto stringente l’obbligo di utilizzare bene le risorse che abbiamo. Stiamo facendo debito, un debito ingente che graverà sulle generazioni a venire. Perciò serve responsabilità. Ancora una volta, serve scegliere.

Ci vuole competenza, in questo momento, a tutti i livelli. Lo ripeto, non possiamo e non vogliamo sbagliare. Ma non possiamo certo restare immobili. Dobbiamo scegliere e agire, e affidarci a chi, come i manager d’azienda, dimostra di possedere la competenza per farlo.