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La specialità del rapporto di lavoro dirigenziale

La specialità del rapporto di lavoro dirigenziale

Sia la dottrina che la giurisprudenza concordano nell’affermare la specialità del rapporto di lavoro dirigenziale

Come noto, la specialità – secondo il disegno del Codice civile delineato dall’art. 2239 in riferimento agli artt. 2094 e seguenti, che individuano il lavoro subordinato nell’impresa quale modello generale – può essere di fattispecie e/o di disciplina.

La prima, nel nostro caso, può individuarsi nella particolare posizione del dirigente nel contesto aziendale, tradizionalmente quale alter ego dell’imprenditore, comunque con un vincolo di fiduciarietà intenso. Ciò giustifica l’esistenza della seconda e cioè la specialità di disciplina, nel senso che, spesso, le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro si “ribellano” all’applicazione delle norme generali pensate per l’operaio della fabbrica (modello social-tipico prevalente che ha ispirato il Legislatore) e richiedono una regolamentazione – legale e negoziale – in parte diversa, nonostante la scelta codicistica di ricomprensione dei dirigenti tra i lavoratori subordinati.

Secondo Cass. n. 9955 del 2018, “quello dei dirigenti è un rapporto di lavoro di natura speciale per la peculiare collocazione che ad esso va riconosciuta all’interno dell’organizzazione aziendale, richiedente la permanenza del profilo fiduciario, che non ne ha mai consentito una completa omologazione a quello degli altri lavoratori subordinati”.Specialità rintracciabile già nell’art. 2095 c.c., dunque, nell’assenza di una nozione legale di dirigente, con utilizzo tralatizio, da parte della Giurisprudenza, della declaratoria contrattuale del settore guida dei dirigenti di aziende industriali, utilizzo che non ha però impedito l’emersione, nell’esperienza, della casistica sugli pseudo dirigenti o la presa d’atto di un’articolazione interna della categoria – inizialmente costruita dalla giurisprudenza medesima in modo unitario – tra mini dirigenti e dirigenti di vertice, così come la percezione – a livello più organizzativo che giuridico – di una classe manageriale, distinta dagli altri lavoratori, nelle società di capitali.

Infatti, Cass. n. 31279 del 2019 ha ricordato che “negli assetti organizzativi delle imprese, se di rilevanti dimensioni, ben possono coesistere dirigenti di diverso livello […]. La previsione di una pluralità di dirigenti (a diversi livelli, con graduazione di compiti), tra loro coordinati, è ammissibile in organizzazioni aziendali complesse, in riferimento a prassi aziendali ed alla concreta organizzazione degli uffici, purché sia fatta salva anche nel dirigente di grado inferiore un’ampia autonomia decisionale circoscritta dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore (cfr. Cass. n. 8650 del 2005). Come affermato da Cass. n. 8842 del 1987, con soluzione qui condivisa e ribadita, con riguardo alla qualifica di dirigente, pur essendo possibile, nell’ambito della stessa azienda, una pluralità di dirigenti, di diverso livello, tra loro legati da vincolo di gerarchia, deve però trattarsi di una dipendenza molto attenuata, in quanto caratterizzata da ampia autonomia nelle scelte decisionali del dirigente subordinato per la realizzazione degli obiettivi dell’impresa, sicché il vincolo gerarchico si traduce in un’attività di controllo o di coordinamento di direttive relative ad una sfera generalmente più limitata, facente capo al dirigente sovraordinato quale costituente tramite diretto della volontà dell’imprenditore”.

In tal modo, la Suprema Corte sembra superare la tradizionale  configurazione del dirigente quale alter ego dell’imprenditore, valorizzando la concreta complessità della struttura aziendale, le sue dinamiche interne, le “diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale” e la “contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo”, come si legge in Cass. n. 21318 del 2019 (conf. Cass. n. 32880 del 2018).

In tale prospettiva anche un dipendente con incarico richiedente elevata specializzazione o una sperimentata esperienza potrebbe incidere in modo rilevante e immediato sugli obiettivi dell’impresa, essendo proprio questo elemento quello caratterizzante l’attività del dirigente ed utile per segnare la linea di confine tra questa figura e quella di quadro.

Di tale specialità deve, infatti, tenersi conto, nel frequente contenzioso avente ad oggetto la domanda di un lavoratore – inquadrato nella categoria dei quadri – volta ad ottenere il riconoscimento della natura dirigenziale delle funzioni svolte, con conseguente pagamento delle differenze retributive maturate.Ad esempio, da ultimo, la Corte d’appello di Roma ha confermato (seppure con diversa motivazione) la decisione del Tribunale di Frosinone che aveva respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo che il ricorrente non avesse concorso all’individuazione degli obiettivi della società, essendo “le scelte di politica aziendale – tipico tratto della figura dirigenziale – rimesse ai soci” (App. Roma 30 aprile 2020).

Ad avviso della Corte d’appello “è proprio il potere di concorrere, o meno, all’individuazione degli obiettivi dell’azienda a distinguere la figura del dirigente da quella del quadro”: nella sentenza si sottolinea come “per l’individuazione degli elementi qualificanti la figura del dirigente […] non è più possibile far riferimento soltanto all’aspetto della supremazia gerarchica e dei poteri direttivi ad essi connessi, essendo necessario tenere presente anche la qualità, l’autonomia e la discrezionalità delle mansioni espletate”.

Nella sentenza si legge, infine, un’utile avvertenza: nelle strutture imprenditoriali di piccole dimensioni o, come nella fattispecie, a conduzione familiare, “l’indagine del giudice di merito volta ad accertare la fondatezza della pretesa del lavoratore al riconoscimento della qualifica dirigenziale deve essere ispirata a particolare rigore, essendo difficilmente ipotizzabile la necessità di supplenza imprenditoriale se non si è in presenza di ampie articolazioni produttive e di numerosi dipendenti”.

Del resto, il vincolo stesso di subordinazione assume un’intensità differenziata: in un recente caso (Cass. n. 3640 del 2020), riguardante la qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato con riferimento all’attività di un asserito dirigente, la Cassazione – rigettando la domanda di un lavoratore, risultato soccombente pure nei precedenti gradi di giudizio – ha ribadito “che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (cfr. Cass. n. 3594 del 2011, Cass. n. 7517 del 2012, Cass. n. 18414 del 2013, Cass. n. 9463 del 2016, Cass. n. 29044 del 2017, Cass. n. 29761 del 2018, Cass. n. 5178 del 2019)”.

In questa occasione, la Corte ha condivisibilmente notato che, “ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass. n. 7517 del 2012)”.

Per concludere, può dirsi che, per capire la nostra materia e comprendere appieno la specialità del rapporto dirigenziale, vanno riletti gli scritti di quei grandi Maestri, che ci hanno insegnato che “la conoscenza della giurisprudenza è di importanza essenziale per lo studio approfondito del diritto del lavoro”  (Francesco Santoro-Passarelli) e che non può prescindersi dal contratto collettivo poiché è “difficile poter pensare che ci sia una razionalità, un ordine, un sistema di per sé delle fonti del diritto del lavoro. Oltretutto il diritto del lavoro ha la capacità di creare fonti, di esprimere fonti, di creare regole: se voi pensate all’esperienza sindacale ed al contratto collettivo, senza prendere posizione sulla sua natura, comunque il contratto collettivo è di per sé una regola, è qualcosa che lo stesso mondo del lavoro ha creato” (Matteo Dell’Olio).

Insuperati insegnamenti per ogni giuslavorista e, a maggior ragione, per chi voglia studiare bene il lavoro dirigenziale, con la consapevolezza della necessità di conoscere la giurisprudenza e la contrattazione collettiva.

Salvate il soldato manager

Salvate il soldato manager

Salvate il soldato manager: risarcimenti, giudizi, spese legali ed altri rischi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro

È un periodo complesso per i dirigenti, ammetiamolo. Allo spettro della perdita del lavoro si accompagna il costante rischio di inciampare su una delle numerose insidie sparse sul sentiero lavorativo del dirigente; rischi, responsabilità e danni potenziali ascrivibili ai manager hanno oggi indubbiamente raggiunto il loro parossismo.

È con questa costante spada di Damocle sulla testa, dunque, che il manager è costretto ad operare in un mondo non soltanto sempre più globale e mediatico, ma caratterizzato da una proliferazione legislativa che ha visto espandersi sempre di più i confini del rischio del dirigente.

Al contempo, la perdurante crisi economica, riducendo inevitabilmente i ricavi aziendali, ha portato molte società ad approfittare di qualsivoglia cavillo giuridico per evitare, spesso scaricando le colpe sul dirigente, di farsi carico dei danni subiti da terzi riconducibili alle funzioni aziendali ricoperte dai manager.

Senza dimenticare, poi, l’universo delle società in crisi che, una volta sottoposte ad una procedura concorsuale (fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo, ecc.), lasciano, di fatto, scoperti i dirigenti i quali, poi, si vedono costretti a farsi carico dei risarcimenti e delle spese legali connesse ai procedimenti penali e civili in cui sono rimasti coinvolti.

Mai come in questo periodo, quindi, si ravvede la necessità di rafforzare le tutele stabilite dall’art. 15 del CCNL dirigenti aziende produttrici di beni e servizi.

Per affrontare questa complessa tematica, è prima necessario offrire un quadro riassuntivo delle tutele previste dalla predetta norma collettiva e delle interpretazioni giurisprudenziali rese in subiecta materiae dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. Tale evoluzione è stata già affrontata in un precedente articolo a cura dello scrivente ma, per ragioni di sistematicità e completezza, è bene ripercorrere le tappe di questo percorso evolutivo che ha come protagonista la tutela in esame. Salvate il soldato managerIl 1° comma dell’art. 15 del CCNL recita testualmente: “Ogni responsabilità civile verso terzi per fatti commessi dal dirigente nell’esercizio delle proprie funzioni è a carico dell’azienda”.

Il suddetto comma, poi, va raccordato con il successivo 4° comma che, circoscrivendo l’ambito applicativo della tutela de qua, così dispone: “Ove si apra procedimento penale nei confronti del dirigente per fatti che siano direttamente connessi all’esercizio delle funzioni attribuitegli, ogni spesa per tutti i gradi di giudizio è a carico dell’Azienda. È in facoltà del dirigente di farsi assistere da un legale di propria fiducia, con onere a carico dell’Azienda”.

Il precetto collettivo, quindi, mira ad identificare quei fatti ingeneranti una responsabilità civile nei riguardi dei terzi danneggiati, fermo restando che, con riferimento alle spese legali da sostenere in un giudizio penale, sarà poi necessario enucleare detti fatti per stabilire quali di essi rientrino o meno nel perimetro di quelli “commessi dal dirigente nell’esercizio delle proprie funzioni”.

Ebbene, sulla base della più ricevuta giurisprudenza si dovrà aver riguardo ai soli “fatti” compiuti dal dirigente nell’esercizio delle proprie funzioni con il fine ultimo del perseguimento del “bene” aziendale e, comunque, degli interessi strettamente connessi alla Società; è, pertanto, esclusa l’applicabilità dell’art. 15 nei casi in cui, pur essendo stati compiuti degli atti nell’esercizio delle funzioni gli stessi siano stati contrari all’interesse specifico del datore di lavoro e/o commessi motu proprio.

Su questo punto si espressa inequivocabilmente la Suprema Corte (Cass. Sez. Lav. N. 2747/2004) la quale, nel valutare l’attività materialmente posta in essere dal dirigente, ha precisato che “occorre che si tratti di un’attività che, quand’anche civilmente o penalmente illecita, sia comunque stata posta a vantaggio del datore di lavoro (“cui commoda, eius incommoda“). Se si tratta invece di un’attività posta in danno della società dal dirigente che quindi si rivela essere infedele (nel senso che abbia violato gli obblighi di fedeltà), la garanzia contrattuale non scatta. Quindi una tale garanzia non sussiste per quei comportamenti penalmente illeciti che vedono il datore di lavoro come parte offesa”.

Non vi è dubbio, quindi, che troveranno ampia copertura contrattuale tutte le condotte, connesse alle funzioni, adottate dal dirigente con il fine principe dell’interesse e degli scopi aziendali mentre risulteranno escluse qualora il fatto addebitato, a prescindere dalla colpevolezza o meno del dirigente, consista in un’attività posta in essere a danno del datore di lavoro.

Del resto, come correttamente osservato dalla Suprema Corte, la copertura ex art. 15 non potrebbe certamente operare allorché il datore di lavoro risultasse parte lesa del reato perpetrato dal dirigente.

Resta adesso da chiarire come si accerti se il fatto addebitato sia stato posto a danno o meno del datore di lavoro.

Su questo punto, si è espresso molto chiaramente il Tribunale di Siracusa (sentenza del 20/07/2005 n. 1024 parti: Rivoli vs. Syndial S.p.A.) chiarendo che la suddetta verifica non può che essere effettuata privilegiando “l’aspetto astratto della fattispecie penale e cioè la nozione di soggetto passivo del reato che si determina a seguito della lesione dell’interesse giuridico (o bene) protetto immediatamente dalla fattispecie di reato addebitata al dirigente”. Più precisamente, il Tribunale ha chiarito che tale indagine – l’avere il reato come soggetto offeso il datore di lavoro o altro soggetto – dovrà essere effettuata ex ante e non ex post chiarendo che “non può in alcun modo giungersi ad una interpretazione della norma, che imponga all’interprete di compiere una sorta di anticipazione dell’esito del giudizio penale con prognosi sulla attendibilità di una condanna del dirigente”.

Per questa ragione, ad esempio, i reati ambientali vengono considerati rientranti nella copertura ex art. 15 in quanto “il bene protetto è il patrimonio ambientale, la salute pubblica e non certo il patrimonio societario”.

Chiarito quanto sopra, occorre adesso esaminare anche il momento “temporale” in cui scattano le tutele de quibus non essendo sporadica l’eccezione, formulata da alcune aziende, soprattutto tra quelle partecipate dal pubblico (l’art. 26 del CCNL dirigenti Confservizi è sostanzialmente analogo all’art. 15 del CCNL dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi), che la copertura possa materialmente scattare soltanto una volta accertata, tramite il passaggio in giudicato della relativa sentenza, l’assenza di dolo o colpa grave nella condotta adottata dal dirigente e a lui/lei contestata da parte dell’autorità giudiziaria. Salvate il soldato managerEbbene, l’articolo 15 in parola risolve questo dubbio ermeneutico imponendo il rimborso da parte aziendale senza possibilità di effettuare alcun differimento temporale della tutela in esame.

A conferma di quanto appena esposto soccorre una risalente pronuncia che si è occupata approfonditamente dell’art. 15 CCNL, (Pretura di Roma, Dott. Lanzellotto, Sent. n. 10282 del 24/3/1982, causa Domenico Messina/Impresa Manfredini SPA), che, nel valutare le esclusioni della copertura in casi di dolo o colpa grave, ha correttamente osservato che, con riferimento alla norma collettiva in esame, “l’unica interpretazione possibile che può esserle attribuita è nel senso che con la medesima si prevede, non già una ulteriore condizione alla operatività dei diritti previsti dai commi precedenti, ma solo l’eventuale facoltà per il datore di lavoro di ripetere quanto versato ove, con sentenza passata in giudicato venga accertato, nei rapporti interni tra le parti, il dolo o la colpa grave del dipendente”.

Il riferimento della disposizione contrattuale alla “colpa grave” rimanda, ovviamente, l’interprete ai corrispondenti istituti civilistici, aventi quindi una portata non coincidente con la responsabilità penale, con ciò chiarendo la volontà delle parti contrattuali di escludere il diritto datoriale alla ripetizione solo laddove venga acclarata la colpa qualificata del dirigente nel rapporto contrattuale e non già (e comunque non solo) nella commissione dell’illecito.

Il quadro sopra delineato non può che destare preoccupazione nella categoria, ergo la domanda: Cosa fare allora?

Tralasciando il livello di attenzione da porsi nell’esecuzione della prestazione lavorativa – da sempre parte integrante del bagaglio professionale del manager – la realtà è che, da un punto di vista giuridico, l’unico strumento, nel mondo di oggi, adatto ad offrire idonee garanzie è quello assicurativo.

Più precisamente, le polizze adottate nel mercato di riferimento di oggi possono risolvere le due principali problematiche che attanagliano il dirigente: (i) l’accertamento di una condotta dolosa o gravemente colposa prima di far scattare materialmente la copertura; (ii) la ripetizione di quanto eventualmente erogato dall’azienda in caso di condotta gravemente colposa accertata dalla Magistratura con sentenza passata in giudicato.

Un’efficace risposta è stata data ad entrambe le suddette problematiche da alcune grandi compagnie assicurative tramite coperture ad hoc, chiamate polizze D&O (i.e. Directors & Officers), che prevedono l’immediato pagamento ai legali incaricati dal dirigente nel corso del procedimento e, fatto ancor più importante e “tranquillizzante”, il mantenimento delle garanzie ex art. 15 in esame anche in caso di colpa grave del dirigente.

La tutela assicurativa, peraltro, tutelerebbe, al ricorrere di un evento negativo, non soltanto il dirigente e l’azienda, ma faciliterebbe il risarcimento del terzo danneggiato che avrebbe un soggetto – la compagnia di assicurazione – tipicamente solido dal punto di vista economico-finanziario.

Federmanager, da sempre in prima fila nell’anticipare le problematiche suscettibili di affliggere il dirigente ed il suo nucleo familiare, ha da tempo incaricato il proprio broker di riferimento – Praesidium S.p.A. – nell’offrire dette soluzioni assicurative alla categoria dirigenziale.