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Scelte giuste, scelte obbligate

Scelte giuste, scelte obbligate

Scelte giuste, scelte obbligate. Nell’avvio della “fase 2” prioritarie rimangono la sicurezza e la salute. Al governo chiediamo linee guida comuni che tutelino i posti di lavoro, evitando confusione, superando contrapposizioni e riconoscendo il ruolo fondamentale che le organizzazioni di rappresentanza svolgono sul piano operativo. Servono responsabilità e competenza, per questo è importante affidarsi ai manager d’azienda

È con prudenza, ma grande determinazione che dobbiamo avviare la cosiddetta “fase 2”, una fase estremamente delicata, in cui è indispensabile non commettere errori, ma anche muoversi con slancio, rapidità ed efficienza.

Come ho più volte sostenuto, la questione va posta sul “come” ripartire, non certo sui tempi. A chi mi ha chiesto finora quando riaprire l’industria, ho sempre risposto subito. Perché è il “come” aprire l’unica vera variabile da considerare.

La prima scelta riguarda la sicurezza e la salute dei lavoratori. Senza garanzie adeguate su questo, l’Italia può solo retrocedere. Seconda scelta riguarda la catena di comando. Una riapertura a “macchia di leopardo” come alcuni prospettano potrebbe essere un boomerang. Non ci possono essere divergenze o localismi nella ripartenza, bensì scelte condivise: un Paese coeso e unito è quello di cui tutti abbiamo bisogno.

Questo, attenzione, nel rispetto della ricca diversità territoriale che caratterizza il nostro tessuto industriale. Ogni industria, ogni piccola o media impresa deve essere lasciata libera di poter adottare le migliori soluzioni per la continuità del business in raccordo con tutti gli stakeholder e nel rispetto di un quadro normativo e autorizzativo chiaro.

Siamo ancora lontani da questo orizzonte. E questo è il terzo impegno da prendere.

Al governo chiediamo linee guida comuni che tutelino i posti di lavoro e la salute evitando confusione, superando contrapposizioni e riconoscendo il ruolo fondamentale che le organizzazioni di rappresentanza svolgono sul piano operativo. Mai come in questo momento la capacità di riorganizzare il lavoro e di tutelare la salute dei lavoratori deve passare attraverso chi ha l’onere della rappresentanza, con l’obiettivo di cambiare i vecchi modelli di relazioni industriali per disegnarne di nuovi.

Bisogna proteggere gli asset strategici, come ha fatto il Governo con la golden power ad esempio, ma anche irrorare di liquidità le imprese che possono vincere la sfida. Scegliendo, ancora una volta, chi sostenere, su cosa puntare, come muoversi in Europa.

Stime attendibili preannunciano che il Pil italiano si ridurrà di oltre il 10% nei primi due trimestri del 2020. In termini di finanza pubblica, il deficit previsto nel Def per il 2020 torna a livelli mai sperimentati dalla firma del trattato di Maastricht. Se guardiamo ai nostri conti, dobbiamo avvertire molto stringente l’obbligo di utilizzare bene le risorse che abbiamo. Stiamo facendo debito, un debito ingente che graverà sulle generazioni a venire. Perciò serve responsabilità. Ancora una volta, serve scegliere.

Ci vuole competenza, in questo momento, a tutti i livelli. Lo ripeto, non possiamo e non vogliamo sbagliare. Ma non possiamo certo restare immobili. Dobbiamo scegliere e agire, e affidarci a chi, come i manager d’azienda, dimostra di possedere la competenza per farlo.

 

L’urgenza di una politica industriale

L’urgenza di una politica industriale

Spunti e riflessioni sulla necessità di una nuova politica industriale nel nostro Paese: pensare una strategia che tenga conto del contesto economico e guardi ad un ruolo attivo per i manager

In occasione del recente Consiglio Nazionale di Federmanager, il presidente Stefano Cuzzilla, ha nuovamente rivendicato un ruolo attivo dei manager nel contribuire alla definizione di una Politica Industriale.

L’esigenza della definizione di una strategia industriale è avvertita da anni da più parti: forze politiche, forze sociali, mondo imprenditoriale, opinione pubblica. Ma nonostante questo generico consenso, sostenuto anche mediaticamente, non si registrano atti concreti efficaci e significativi. Il problema è obiettivamente estremamente complesso e per essere affrontato richiederebbe un alleggerimento dalla pressione dei fatti contingenti ed un momento di riflessione su alcuni punti base che costituiscono le precondizioni su cui impostare una linea strategica.

 

Non è possibile impostare una politica industriale senza tenere conto del contesto economico generale in cui è inserito il Sistema Italia.

1. La globalizzazione ha inasprito la competitività per tutti i fattori della produzione, accentuando i toni sia delle opportunità sia delle criticità, che nel caso dell’Italia sono prevalenti.

2. Competitività globale in concreto significa che nel sistema economico mondiale si affacciano, con incisività crescente, players di grandi dimensioni non solo demografiche (Cina, India, Corea) ma con regimi politici e sistemi culturali e istituzionali che competono con posizioni di vantaggio nei confronti di paesi più avanzati sul piano dei diritti sociali.

3. A questa aggressione, sul piano del confronto globale, si registra la risposta disordinata dei “Paesi Avanzati” che reagiscono ognuno in proporzione alla propria forza e con UNA PRIORITÀ: la tutela dei propri interessi. Gli esempi delle iniziative Usa sono evidenti ma non le sole anche se meno apparenti.

4. Alle sfide della globalizzazione si aggiungono le sfide derivanti dalla crescente attenzione verso i problemi climatici e ambientali. C’è un crescente dibattito tra chi dà per acquisiti i cambiamenti climatici e li attribuisce ai sistemi di produzione e di vita e chi è scettico. La prima ipotesi è oggetto di forte pressione mediatica e l’opinione pubblica è fortemente sensibilizzata. C’è una forte spinta alla promulgazione di leggi, direttive indirizzi di carattere internazionale tesi a modificare gli attuali sistemi produttivi e dei consumi.

5. Si è avviata una fase di profonda trasformazione e siamo appena all’inizio, siamo nel momento più difficile quello della TRANSIZIONE. Modificare assetti produttivi consolidati e modelli di consumo richiede in primo luogo uno sforzo economico/finanziario enorme a cui non tutti sono in grado di far fronte.

Questo è a mio avviso lo snodo fondamentale su cui orientare una strategia. Come gestire la transizione.

6. Il sistema economico italiano risulta fragile e la sua fragilità avverte momenti di criticità alla luce delle sollecitazioni del contesto internazionale. Il tessuto produttivo è costituito per la grande maggioranza (95%) da imprese di medie piccole dimensioni. Il sistema produttivo nel complesso, è caratterizzato da bassa produttività anche per fattori di carattere generale: eccesso di burocrazia, moltiplicazione di centri decisionali, un sistema giudiziario appesantito da troppe leggi e quindi lento e poco trasparente (almeno agli occhi eteri).

7. Il sistema produttivo è SOTTOCAPITALIZZATO. Il risparmio è ancora a livelli elevati ma non è incentivato a trasformarsi in capitale di rischio.

8. Il sistema produttivo italiano ha subito una progressiva erosione da oltre 20 anni, da quando, nella falsa prospettiva che tutta l’illegalità fosse ascrivibile alla presenza pubblica, nell’economia fu avviato un sistematico e frettoloso smantellamento della presenza pubblica in tutti i comparti, a cominciare dalla privatizzazione del sistema del credito. Senza una visione strategica. Abbiamo ceduto quote significative di enti come ENI ed ENEL per fare cassa nella falsa illusione di ridurre il debito pubblico. Abbiamo ridotto il debito di quote poco significative, rinunciando a dividendi corposi per 20 anni e più.

9. Molto spesso abbiamo ceduto know how (Pirelli, Magneti Marelli ecc.) ed in molti casi BRAND, come ad esempio nel settore della moda. Registriamo lo sviluppo di catene come IKEA, Decathlon, McArturGlen, Auchan, McDonald, che sono campioni soprattutto di capacità organizzative e non di controllo di prodotti o tecnologie avanzate. Sistemi però che stravolgono il nostro commercio di prossimità.

10. Ci troviamo ad uno snodo molto delicato. La recente esplosione del caso ILVA ed il perdurare dei fallimenti nel risolvere il caso ALITALIA (senza considerare i numerosi altri esempi), sta proponendo con forza il tema di come intervenire con azioni di sostegno in grado di risolvere i casi di crisi e, nel contempo, dare uno stimolo alla crescita del PIL che ristagna da anni.

 

11. Si fronteggiano due posizioni. Da un lato chi come Romano Prodi (in un recente articolo su Il Messaggero), ma anche il prof. Sapelli in misura più o meno marcata, ritengono ineludibile e non rinviabile un maggior impegno dello Stato nell’economia. Ci sono molti esempi di presenza virtuosa del capitale pubblico, basti pensare ad imprese come ENEL, ENI, Poste, F.S. Leonardo. La remora non può essere un ipotizzato lassismo nella gestione pubblica. È importante stabilire delle regole d’ingaggio per il management chiamato a governare le imprese pubbliche con l’unico salvacondotto rappresentato dai risultati (in passato non è sempre stato così). D’altro canto non ci inventiamo nulla di nuovo, in Francia e Germania la presenza pubblica in imprese è nell’ordine delle cose. La stessa imprenditoria privata dovrebbe auspicare ad un ritorno del pubblico in economia non in misura monopolistica ma in compartecipazione per ammortizzare i rischi di mercato.

12. In verità c’è una terza via, auspicata dagli economisti di Prometeia, che guarda ad un quadro di intese, a livello europeo, tra imprese che raggiungano dimensioni e peso specifico per competere a livello globale. In linea di principio l’obiettivo sarebbe condivisibile, ma sul piano pratico mancano una serie di presupposti, in particolare che a fondersi siano operatori di pari peso rischiando altrimenti fenomeni di cannibalismo. C’è anche una corrente di pensiero che teme però che il ritorno dello Stato in economia non sia una versione riveduta e corretta delle Partecipazioni Statali, ma piuttosto della GEPI nella sua funzione assistenziale e non imprenditoriale. Ancora una volta si tratta di tracciare delle linee precise di ingaggio cui dovrebbero attenersi i futuri consigli di amministrazione.

13. In conclusione, in questa fase di transizione, il sistema economico italiano con riferimento all’assetto produttivo non ha le risorse finanziarie sufficienti per favorire la trasformazione dei processi produttivi. Siamo un Paese privo delle materie prime tradizionali (petrolio, gas naturali, minerali), ma anche delle materie prime per le nuove tecnologie (litio, cobalto, rame). Dovremo fare fronte aumentando l’efficienza, il che richiede disponibilità finanziarie che soprattutto il sistema imprenditoriale non ha a sufficienza. Un impegno qualificato del capitale pubblico in settori strategici è auspicabile. Parallelamente è altresì indispensabile, per rimuovere l’accusa di assistenzialismo pubblico, che si intervenga in tutte le amministrazioni locali, nella aziende municipalizzate e non solo nella pletora di enti inutili, per dare una dimostrazione concreta che anche il pubblico può e deve essere efficiente.